Quando lavoravo in pubblicità ero convinto di fare il peggior mestiere al mondo. Orari assurdi, stipendio da fame, poche prospettive per il futuro e poca pochissima gloria. Quello che mi faceva più male era il non poter immaginare un futuro con Clelia. Progettare una famiglia, sognare dei figli, una casa, era qualcosa che a noi non era concesso.
Invidiavo il suo successo e la sua fame di gloria. Stare con una persona che fa il tuo stesso lavoro e che per forza di volontà e fiducia nei propri mezzi riesce molto meglio di te, è come dare il colpo definitivo alle tue già fragili ambizioni. Giorno dopo giorno avevo smesso di credere in quello che facevo. Mi sembrava inutile passare le giornate a preoccuparsi del modo migliore per vendere una merendina o un rotolo di carta da culo. E poi mi sentivo troppo sfigato e incapace per stare in quel mondo popolato da personaggi mitologici convinti di salvare il mondo con il proprio lavoro.
Mi sentivo troppo impacciato per gli aperitivi a Corso Como, troppo poco cool per fare bella figura quando accompagnavo Clelia alle feste di agenzia.Sì, perché poco importava se le agenzie non avevano i soldi per pagare stagisti e collaboratori a progetto. L’importante era organizzare mega party prima di Natale e delle vacanze estive per dimostrare a quelli delle agenzie concorrenti di essere i più fighi, di avere i soldi, di essere più originali.
Clelia era affascinata da tutto questo, dal finto lusso e dalla inesistente fama che popolava l’ambiente pubblicitario. Per lei era più importante poter dire di aver vinto qualche ambito premio al Festival Di Chissàcchè che metter su famiglia. Conosceva i suoi direttori creativi meglio di quanto conoscesse me.
Era deprimente.
Quando mi sono ritrovato senza una donna accanto, avevo di fronte due possibilità: tirare fuori le palle e ritagliarmi finalmente un posto decente in quel mondo o mollare tutto definitivamente e accettare di essere un uomo medio senza aspirazioni particolari, senza ambizioni e incapace di sognare. Scelsi la seconda strada accettando la prima proposta semiseria di lavoro. Un lavoro noioso ma con orari normali e stipendio garantito a vita. Mi sono bastati pochi giorni passati tra fatture, numeri, cavilli legali e serietà per capire di aver fatto un colossale errore.
Dovevo fidarmi delle mie sensazioni: dell’odore triste e deprimente che sentivo la mattina quando entravo nel mio nuovo ufficio. Era odore di vecchiaia, di scelte sbagliate, di un cumulo di possibilità gettate al vento. Era l’odore di quello che ho sempre evitato di diventare: una persona senza sogni, fredda e calcolatrice. Sono resistito un mese. Il tempo di sbattere la testa contro la cazzata che avevo fatto; il tempo per capire che a 27 anni, quando nessuno ti corre dietro, è ancora troppo presto per accontentarsi.
Sono fuggito via dopo aver pianto lacrime amare ed essermi maledetto ogni giorno quando riaprivo gli occhi. Mi sono tuffato in questo mare di incertezza in cui navigo ora: tra colloqui in pubblicità senza speranza, corsi di formazione che non iniziano mai, preghiere e ottimismo che tanto non cambiano mai lo stato delle cose. Ho paura di aver gettato tutto via definitivamente e di essere costretto in un modo o nell’altro a dover finire in uno squallido ufficio e di dovermi travestire di nuovo da Ragionier Fantozzi e stavolta per tutta la vita.